Ci sono degli uomini destinati a fare qualcosa di importante, a lasciare un segno indelebile nella storia, a scrivere con le proprie mani la loro leggenda che poi la morte e il tempo cristallizzerà per sempre. Marco Pantani era uno di quegli uomini.
Un talento straordinario, un fisico che sembrava fosse stato creato in laboratorio per essere adattato al ciclismo, il fuoco della passione per il ciclismo che lo spingeva a dominare le difficoltà delle salite più dure delle tappe di tutto il mondo ma che, ironia della sorte, lo ha tradito lasciandolo inerme nel momento della discesa più buia. La storia di Marco Pantani non può essere raccontata senza far riferimento al dualismo del ciclista di Cesenatico. Da una parte il Pirata capace di imprese straordinarie, il fenomeno con occhiali e bandana che vince ed emoziona i tifosi come non accadeva dai tempi di Coppi e Bartali. Dall’altra semplicemente Marco, un ragazzo normale cresciuto a piadine e bicicletta, con la voglia di diventare un campione, ma anche di restare pur sempre ‘normale’, lontano dai riflettori a cui siamo abituati ad associare oggi gli sportivi.
Il talento però, è spesso una maledizione. Pantani non era un ciclista qualsiasi, non era nemmeno un grande ciclista, era qualcosa di più. La gente lo amava per la sua semplicità, era il campione del popolo, genuino, vero, seppur traboccante di qualità inimitabili. Sul Mortirolo è presente una statua che ne raffigura lo scatto del 94′ che lasciò di stucco Evgenij Berzin (poi campione del Giro d’Italia). Sull’Alpe D’Huez riecheggia ancora l’urlo liberatorio dopo la vittoria della 13ª tappa del Tour de France ’97, arrivata dopo il terribile incidente della Milano-Torino. I francesi dopo il Galibier lo hanno ribattezzato ‘Geant’, il ‘Gigante’, stupiti l’attacco del ’98 sotto il diluvio che mise in crisi anche un osso duro come Ullrich. Il Santuario di Oropa lo celebra con l’omaggio che si concede ad una divinità dopo aver cambiato la catena ed aver rimontato 49 ciclisti fra i quali Jalabert costretto al secondo posto.
“E mi alzo sui pedali“, cantavano gli Stadio. Le salite di Marco, le vittorie, la gloria. Ma il lato negativo dell’arrivare troppo in alto, è che la discesa può essere altrettanto lunga e difficile. Quella di Marco gli costò la vita. Sei giorni dopo Oropa, la sospensione per doping. Controllo antidoping a sorpresa: il valore dell’ematocrito segna 52, il limite per gareggiare è 50. Pantani è fuori dalla corsa. Un secondo prelievo al quale si sottopone poco dopo riporta valori nella norma, ma è troppo tardi. Un errore, una disattenzione, un sabotaggio. Ancora oggi il tutto è avvolto da un mistero: è certo però che il 5 giugno 1999 sia la data che ha dato inizio all’ultima corsa.
Marco Pantani, l’immagine di un ciclismo pulito nell’epoca in cui il doping serpeggiava nel gruppo compatto dei grandi giri, si ritrova a dover affrontare quella che vivrà sempre come un’ingiustizia. I media lo assalgono, le persone al suo fianco nelle vittorie lo abbandonano nel periodo più buio. Pantani non è più ‘campione‘, è ‘dopato‘. Il mondo gli crolla addosso, il ‘Pirata’ ritorna Marco, un uomo fragile. La depressione, la dipendenza dalla droga, la spirale di vuoto.
Nell’ultima corsa di Marco, ai bordi della strada non c’è la folla impazzita che urla il suo nome, la gente piange in preda alla disperazione; i compagni che lo guardavano con ammirazione, hanno il viso sconvolto; i giornali che ne elogiavano le imprese, faticano a trovare le parole per annunciare a tutti il suo addio. Il corpo di Marco Pantani viene ritrovato il 14 febbraio 2004 nella stanza D5 del Residence Le Rose di Rimini, disteso a terra in una stanza a soqquadro. Secondo l’autopsia, un’overdose di cocaina e psicofarmaci gli ha causato un’edema polmonare e celebrare che lo ha portato alla morte.
Nessuno ha mai creduto al suicidio. Da quel giorno sono passati 16 anni di indagini, fra dichiarazioni del pusher e il silenzio dei medici; la testimonianza di Renato Vallanzasca, la mafia possibile protagonista nella caduta di Marco, architettata per arricchirsi dalla sua sconfitta. “Me l’hanno ammazzato“, l’urlo disperato di mamma Tonina che chiede giustizia. Oggi Marco Pantani avrebbe compiuto 50 anni, ma c’è chi giura di vederlo ancora lì, in salita, mentre si alza sui pedali. Basta chiudere gli occhi.