La fantastica storia di Dario Bartolotta, il neo campione d’Italia di paraciclismo
Sento l’inno d’Italia che mi rimbomba nelle orecchie, ho la mano posata sul cuore e percepisco i miei battiti scatenati, mi scivolano lungo le guance lacrime di gioia. Così, tra il battito del cuore e l’inno di Mameli, mi perdo tra i miei ricordi…
Correva l’anno 2012 quando, a causa di un incidente, persi l’uso delle gambe. Quando mi proposero di riprendere a fare sport rifiutai, poiché a causa dell’incidente avevo dovuto annullare il mio matrimonio e, pertanto, prima di qualsiasi altra cosa dovevo risolvere questo. Avevo, però, promesso alla mia ragazza che ci saremmo sposati e che, quel giorno, avrei camminato. Durante il periodo della riabilitazione scoprii un macchinario che mi permetteva di stare in piedi e, addirittura, di camminare. E, grazie a questo prezioso strumento, grazie all’esoscheletro, il giorno del mio matrimonio, riuscii a percorrere la favolosa navata del Duomo di Monreale, tra l’emozione delle persone che mi guardavano e quella che provavo io. Raggiunto questo grande e meraviglioso obiettivo decisi, finalmente, di dedicarmi allo sport. Chiamai Salvo Campanella, anche lui paraplegico, chiedendogli di provare l’handbike, una bicicletta da corsa a tre ruote dove lo sforzo non si fa con le gambe, bensì con le braccia.
Ci ritrovammo allo Stadio delle Palme di Palermo e, una volta messo sopra quella strana bicicletta, non mi volevo più fermare, mi sentivo quasi felice. Avevo trovato un qualcosa che racchiudeva tutto quello che amavo fare prima dell’incidente: go kart, moto ed esercizio fisico. Infatti, l’handbike è bassa come un go kart, ma ci vuole la stessa agilità della moto, praticamente il veicolo perfetto per me. Mi convinsi ad entrare nella squadra di Salvo: “Il vento in faccia”.
Da quando ho iniziato ad andare in handbike ho scoperto lo sport vero, sicuramente se dovessi rinascere farei ciclismo senza pensarci due volte.
Dopo un po’ di tempo partecipai al trofeo Balistreri, a Palermo, avevo l’adrenalina che mi scorreva nelle vene, partii subito come un missile staccando tutti ma, ad un certo punto, mi si ruppe la pedana e arrivai ultimo, nonostante ciò, mi sentivo rinato, perfetto, non mi ricordavo neppure di essere paraplegico. Lì per lì diedi la colpa del mio ultimo posto alla rottura della pedana, mi sentivo invincibile, ma con il tempo capii che ero partito troppo forte e che, probabilmente, mi sarei fermato due chilometri dopo. L’anno successivo, comunque, riuscii a vincere il trofeo Balistreri.
Nel 2017 partecipai alla maratona di Firenze arrivando secondo dietro il campione d’Italia in carica, Christian Giagnioni, a soli due minuti e mezzo di distacco. In quel momento capii che allenandomi seriamente, facendomi seguire da qualcuno esperto, sarei riuscito a ridurre il distacco ed essere tra i più forti a livello nazionale. Mi misi in contatto con l’allenatore di Zanardi e Podestà, i miei miti, entrambi vincitori delle paraolimpiadi. Grazie a lui iniziai ad allenarmi in maniera regolare a fare le prime gare internazionali dove capii, ad esempio, l’importanza dell’alimentazione durante la corsa. Alternai momenti di massima felicità a momenti dove volevo lasciare tutto poiché, nonostante i tanti sacrifici e il tempo passato lontano dai miei figli, non riuscivo a centrare i miei obiettivi. In questi momenti di sconforto ho sempre avuto accanto a me il mio amico fraterno Andrea Famà che, con le sue parole ed il suo sostegno, è sempre riuscito a darmi quella carica in più, quella carica che a volte, per un motivo o per un altro, tendo a perdere.
Partecipai alla finale del Giro d’Italia dove, nonostante una caduta dovuta ad un po’ di nervosismo in gara, riuscii ad arrivare secondo subito dietro a Christian Giagnioni lo stesso che, solo un anno prima, mi staccava di due minuti e mezzo.
Finita la stagione continuai ad allenarmi duramente, ma pensavo che ci fosse qualcosa che non andava. Contattai allora Vittorio Podestà chiedendogli se fosse la mia bici a non andare, ma lui mi rispose “il problema sono le braccia, ma avendo fatto solo otto gare è più che normale, anzi… sei fortissimo”. Mi chiese di entrare nella Tigullio la squadra fondata da lui e, senza pensarci, accettai. Mi dispiaceva lasciare Salvo Campanella ma, come lui stesso mi disse, andando con Vittorio avrei avuto altre opportunità che, in Sicilia, non avrei mai trovato.
Iniziai, così, questa nuova avventura che mi portò a fare tre gare in tutto il mondo ed i campionati italiani 2019.
Mi preparai per l’appuntamento tricolore allenandomi, come ogni giorno, tra le strade delle mie città, Palermo e Monreale, dove però questo sport non è conosciuto e, come dice sempre il mio amico Salvo, le persone hanno delle barriere mentali che andrebbero distrutte.
Il giorno prima della partenza per l’italiano mi fermò un carabiniere dicendomi che era pericoloso, che non potevo usare quello strano attrezzo. Io lo guardai e mi misi a ridere, gli dissi che avevo i campionati italiani e che, pertanto, non mi potevo fermare. Lui aveva paura che mi succedesse qualcosa ma gli dissi che secondo la legge ero un normale ciclista e che se le persone rispettavano il metro e mezzo di distanza, non c’era nulla di cui preoccuparsi. Pensai che, probabilmente, se si organizzassero più spesso delle gare a Palermo, vedere un paraciclista sull’handbike non sembrerebbe una cosa così “aliena”.
Il giorno dopo partii con il presupposto di vincere la cronometro perchè, da sempre, è la specialità che amo di più. Nella crono sono da solo, mi riesco a concentrare meglio, ho meno pressione. Nella prova in linea l’ansia del confronto con l’avversario, che mi sta con il fiato sul collo, si fa sentire. Conclusi la prova contro il tempo al terzo posto, a due minuti dal primo, con una media di 35 km/h.
Ero felicissimo di aver fatto bene e di avere al collo una medaglia, seppur di bronzo.
Il giorno seguente mi aspettava la prova in linea, ero spaventato e allo stesso tempo pieno di adrenalina. La corsa prese il via, dopo il primo giro mi preoccupavo di non riuscire a finire ma, man mano che la corsa andava avanti, prendevo sempre più consapevolezza dei miei mezzi. All’inizio subivo i vari attacchi e non riuscivo a trovare il mio passo che, a metà gara, finalmente, ritrovai. Al penultimo giro, sempre più consapevole delle mie forze, sulla salita sentii l’urlo di incoraggiamento di Podestà, guardai i miei avversari in faccia capii che erano stanchi; io stavo bene, c’ero alla grande. Allora feci un segno a Vittorio che smise di urlare ed ebbe la mia stessa consapevolezza: potevo vincere, la gara era mia.
Ai piedi della salita dell’ultimo giro mi voltai per guardare per l’ultima volta i miei avversari, compreso Christian Giagnioni con cui ci eravamo dati cambi regolari staccando tutti, e attaccai lasciandomi tutti gli avversari e tutti i sacrifici alle spalle. Arrivai al traguardo da solo provando un’emozione unica. Una vittoria dedicata alla mia famiglia ma, soprattutto, a mio padre che faceva parte della scorta del giudice Rocco Chinnici e, che, morì con lui…
“ Siam pronti alla morte, l’Italia chiamò!”
Mi svegliai dal mio sogno ad occhi aperti, ancora non capivo bene quello che mi era successo, abbassai la testa e mi vidi al collo una medaglia d’oro posare sulla maglia tricolore.
Non ci credo ancora, ma forse dovrei… sono campione d’Italia!