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I colpi di pistola, il ‘mutismo’ e due anelli: Kawhi Leonard, l’eroe malinconico dei Toronto Raptors campioni NBA

SportFair

Kawhi Leonard, l’eroe dei Toronto Raptors campioni NBA: dai colpi di pistola che gli hanno portato via il padre al ‘mutismo’ nel quale si è rinchiuso dedicandosi al basket. Due anelli NBA parlano più di qualsiasi altra cosa

Nella notte italiana, presso la Oracle Arena di Oakland, una splendida favola sportiva ha avuto il suo lieto fine. I Toronto Raptors, la cui vittoria era praticamente impronosticabile alla vigilia delle Finals, hanno vinto Gara-6 rifilando un secco 4-2 ai Golden State Warriors (bi-campioni in carica), laureandosi campioni NBA per la prima volta nella loro giovane storia (fondati nel 1995, ndr).

Dopo tanti anni di promesse non mantenute, di “vorrei ma non posso”, i Raptors hanno ottenuto la tanto agognata gloria. Il basket, come tutti gli sport di squadra, non dipende mai da un singolo, ma se quel singolo risponde al nome di Kawhi Leonard, tanti fan canadesi potrebbero soprassedere a tale massima. Arrivato dagli Spurs in estate, al termine di una stagione nella quale non aveva visto il campo, da separato in casa (e infortunato) con la franchigia che lo aveva reso grande, Leonard si è preso Toronto, il Canada e da questa notte anche tutta l’NBA.

Talento sconfinato su entrambi i lati del campo, efficiente in attacco, letale in difesa, ha le mani più grandi del 52% rispetto ad un uomo comune, due chele con le quali strappa la palla dagli avversari e la infila nel canestro avversario (22 i punti segnati in Gara-6, oltre a sei rimbalzi e 2 assist). Il tutto senza muovere un muscolo del viso, come una guardia svizzera. Avete presente la lingua di fuori di Michael Jordan, la rabbia con la quale LeBron va in penetrazione, il sorrisetto con il quale Curry si sloga la mascella per tirare fuori il paradenti un momento prima che il ‘ciuf’ della retina gli consegni l’ennesima tripla della partita? Bene, sul volto di Kawhi Leonard vedrete sempre la solita, seria, espressione. Qualcuno l’ha visto ridere, una volta, forse… ma è tornato serio subito.

LaPresse/Reuters

In merito al motivo c’è davvero poco da scherzare. Era il 19 gennaio 2008, Kawhi voleva andare a far visita al padre all’autolavaggio nel quale lavorava, non si vedevano tanto visto che i genitori erano separati (ma in buoni rapporti), ma papà Mark era tutto per lui: il modello da seguire, la fonte d’ispirazione. Kawhi non sapeva ancora che l’ultimo incontro con il padre non sarebbe mai più avvenuto. Colpi di pistola, il signor Mark che cade a terra. Forse una rapina, dirà la polizia. Un’altra vittima delle strade di Compton. “Kawhi papà è morto, devi farti forza, la telefonata che nessun figlio si augura mai di ricevere e che nessuna madre vorrebbe fare. Kawhi resta immobile, il cuore si frantuma in mille pezzi. Il ragazzo con il nome che ricorda le isole Hawaii vive l’impatto con la crudeltà della vita e diventa un uomo, a modo suo. Kawhi decise di chiudersi in se stesso, di non sprecare sorrisi, né parole: i primi sono preziosi, le seconde sono superflue se ci si può esprimere con il pallone fra le mani. Il basket diventa lo sfogo, la ragione di vita. Federico Buffa lo definirà quasi ‘autistico’, nel suo modo di interfacciarsi con gli altri: resta in silenzio, in disparte, ma è un fenomeno vero, capace di gestire tutto ciò che ha dentro, senza fare uscire una singola goccia fuori.

Gli Spurs vanno all-in su di lui nel 2007, strappandolo ai Pacers. Il giovane di Riverside dopo l’esordio ha un pensiero fisso: “mio padre doveva essere a vedermi sugli spalti, è stato tristissimo”. Si forgia il carattere, alle 6:30 di ogni mattina di allena da solo per diventare il migliore, fra lo sconforto di chi a San Antonio è costretto ad aprirgli la palestra e chiama il coach di San Diego State, sua squadra collegiale, per chiedere se fosse normale: no che non è normale, è Kawhi Leonard. Con gli Spurs vince titolo del 2013-2014, da MVP delle Finals, spezzando il sogno del three-peat degli Heat di LeBron James svaniti dopo quella finale. Vizietto che non ha perso nel tempo: si ripete quest’anno, chiudendo la dinastia degli Warriors di Curry e Durant, mandando in fumo il sogno di vincere il terzo anello consecutivo. Nuovamente MVP. È il terzo giocatore della storia ad aver ottenuto tale riconoscimento insieme a Kareem Abdul-Jabbar e LeBron James, il primo a farlo in entrambe le Conference (i Bucks di Kareem erano ad Ovest). Leader dei Playoff per punti, rimbalzi e palle recuperate come Bird nel 1984, insieme a Michael Jordan, Shaquille O’Neal e Kevin Durant è il quarto ad aver segnato almeno 35 punti con 0 palle perse alle Finals.

Papà non c’è a guardarlo dagli spalti, ma sicuramente sarà stato in prima fila a gioire dall’alto: questa notte suo figlio è diventato, in silenzio, il più grande di tutti.

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