Marco Belinelli ha raccontato l’NBA dal suo punto di vista, in una splendida lettera pubblicata su The Players Tribune: dalle difficoltà con l’inglese ai 5 migliori europei mai visti
Come è tradizione, il sito The Players Tribune ha regalato un’altra perla levando di mano il pallone ad una stella NBA per consegnargli una penna. La nuova lettera apparsa su TPT, questa volta porta la firma di un italiano: Marco Belinelli. Il cestista degli Atlanta Hawks ha raccontato il modo in cui si è avvicinato al basket, giocando da ragazzino in un paesino dell’Emilia Romagna; il suo primo, traumatico, impatto con il mondo NBA; e per finire, come ci si sente ad essere europeo nel grande basket USA, soprattutto se in mezzo ai campioni a stelle e strisce, spiccano stelle del vecchio continente come Nowitzki e Ginobili.
“Da ragazzo, in Italia, il basket era la mia vita. Tutti i miei amici giocavano a calcio, ma per me e i miei fratelli maggiori, Umberto ed Enrico, il basket è sempre stato IL gioco. Siamo cresciuti in questo piccolo paese vicino Bologna chiamato San Giovanni in Persiceto. Mettemmo un canestro in cortile e ci abbiamo giocato ogni giorno, sfidandoci l’uno contro l’altro fino al tramonto. Non c’era letteralmente nient’altro da fare quando eravamo piccoli.
Ah già — vi ho detto che Enrico è 10 anni più grande di me? E che fisicamente è bello grosso?
Non il miglior matchup.
Ma giocare contro i miei fratelli, più grandi e forti, mi ha reso un giocatore migliore; il fatto che a 14/15 anni avessi già superato il metro e novanta non ha certo guastato. A 16 anni stavo già giocando da professionista in Italia per la Virtus Bologna, la stessa squadra di Manu Ginobili e Marko Jaric. Era una delle squadre migliori d’Europa e aveva molto successo, e io stavo imparando tanto da quegli incredibili giocatori. É stata sol0 una logica conseguenza, dunque, che quando ho avuto la possibilità di dichiararmi eleggibile per il Draft, mi sentissi pronto per la NBA.
Ma c’era un piccolo problema.
Non parlavo letteralmente una parola d’inglese.
Quindi ero lì, molto nervoso, durante la Summer League del 2007. La cosa che non mi piace della Summer League è che tutti cercano di farsi notare, è un basket molto confusionario. Pensavo, come riuscirò a emergere? Riuscivo a capire qualcosa di quel che mi dicevano i miei compagni, ma non potevo rispondere loro.
Poi mi decisi e dissi sai cosa, al diavolo tutto — ogni volta che la palla mi arriva in mano, tiro. É solo pallacanestro, giusto? Non c’è molto da capire.
Quando ho guardato in alto, al tabellone, mi sono accorto di averne messi 36 o 37. Era Summer League, certo, ma ciò mi mostrò che non ero lì per caso e potevo stare in campo e segnare contro giocatori NBA. Sul parquet, quel giorno, non avevo bisogno di parlare inglese. Il basket era la lingua che conoscevo meglio, ce l’avevo nel sangue.
Oramai sono nella NBA da 10 anni — il che è semplicemente incredibile. Ma non sarei potuto arrivare fin qui senza aver imparato il linguaggio del gioco da alcuni dei migliori giocatori d’Europa.
Qui ci sono i migliori tra quei migliori – i cinque più forti europei che abbia mai affrontato in campo.
Dirk Nowitzki
Come molti giocatori europei della mia età, ho potuto appezzare Nowitzki da teenager, prima che diventasse una stella NBA. Quando fu scelto al Draft, era sconosciuto, ma in Europa tutti sapevamo chi fosse e cosa potesse fare.
Quindi, quando qualcuno mi chiede chi sia il più forte europeo contro il quale abbia mai giocato, Dirk è il primo a cui penso.
Nel 2005 o 2006 giocai la mia prima partita in nazionale contro la Germania. Tutti sapevano che Dirk era pericoloso al tiro, quindi, quando cambiai su di lui, lo pressai il più possibile per cercare di impedire che potesse concludere. Era un paio d’anni più vecchio di me e pensavo di poter pareggiare il suo livello di energia e limitarlo.
Fu impossibile.
Mi superò con l’agilità di una point guard ed era così alto che non potevo contrastare il suo tiro. Ciò che stava facendo non sembrava reale. Ha cambiato il basket in svariati modi. Io e i mei compagni eravamo impressionati dalle sue movenze e dalla facilità con cui faceva canestro. Quando arrivò in NBA, sapevamo che avrebbe avuto successo ancora prima che la NBA stessa lo sapesse.
Dirk è uno dei cinque migliori giocatori di sempre, mia opinione. È incredibile.
Hidayet ‘Hedo’ Turkoglu
Quando incontrai Hedo la prima volta, lo ammetto, gli andai dietro più che altro per la sua fama.
Ero cresciuto guardandolo giocare con la Nazionale turca e avevo sempre ammirato la completezza del suo gioco. Hedo non era un vero tiratore come la maggior parte dei giocatori europei dell’epoca, e usava questo a suo vantaggio: i giocatori meno preparati lo avrebbero trattato e affrontato da tiratore perché era europeo, poteva prenderli di sorpresa. Quando abbiamo giocato insieme a Toronto, cercavo sempre di marcarlo e imparare da lui in allenamento, così mi prese sotto la sua ala protettiva.
Fu una sensazione surreale.
Allora, una cosa da sapere su di me è che sono sempre stato in grado di tirare a canestro. Sento come se fosse l’unica cosa che ho fatto fin dall’infanzia. Quando gioco a basket, la miglior sensazione per me è arrivare a giocare il più possibile come voglio — mi piacciono le triple con spazio, il gioco di flusso. Ma ho imparato che devi continuare a crescere costantemente per pretendere certe libertà, allenarti sempre e aggiungere nuove cose. Hedo era il migliore in questo, quindi avevo molto da imparare da lui.
Hedo è grosso. Era molto più possente di me, ma era anche molto rapido e molto bravo nel pick ‘n roll; poteva essere davvero difficile da marcare. Era in grado di fare un passaggio e darmi la palla nel posto giusto al momento giusto. Ricordate i Playoffs in cui guidò i Magic alle Finals andando in penetrazione, tirando da fuori e innescando Dwight (Howard, ndr)? Non vi serve vedere altro. Hedo conosce profondamente la pallacanestro.
Abbiamo giocato uno-contro-uno quasi tutti i giorni in allenamento. Non vi dirò chi ha vinto più partite, ma era incredibile per me poterlo guardare. Era in grado di battermi in tantissimi modi diversi, un giocatore intelligentissimo.
Ma non è comunque mai riuscito a stopparmi.
Peja Stojakovic
Come vi ho detto prima, io sono sempre stato un giocatore forte al tiro.
Paragonato a Peja, però, sono letteralmente un muratore.
Peja è un altro di quei giocatori che avevo già ammirato in Europa, ma non lo avevo mai realmente conosciuto fino a quando ci siamo trovati entrambi a giocare a New Orleans. Durante il primo periodo là, alla fine di un allenamento, mi propose una sfida 1-vs-1 al tiro da tre.
Mi fece il culo.
Ero senza parole. Voglio dire, avevo già fatto un sacco di gare di tiro da tre… ma niente di simile a questo. Per cominciare, mise tutti i suoi 40 primi tiri. É stato – perdonatemi il francesismo – fottutamente incredibile. Per quel che mi riguarda, lui è il miglior tiratore con cui abbia mai giocato, uno dei migliori di sempre in NBA. Un professionista incredibile, mi ha sempre spinto a migliorare me stesso, ad allenarmi ed essere sempre pronto. Esattamente ciò di cui avevo bisogno all’inizio della mia carriera.
Anni dopo, ho avuto di nuovo la possibilità di lavorare con Peja a Sacramento – durante la scorsa stagione – ma stavolta lui non era un mio compagno, bensì un membro del front office. Era ancora una volta uno dei migliori nel suo lavoro. Mi ha insegnato tantissimo sull’etica del lavoro e su come crearmi una carriera in questa lega senza chiamarmi Kobe o LeBron. Se fosse dipeso solo da lui, credo che starebbe ancora giocando ai massimi livelli.
Anthony Parker
Ok, in questo caso sto barando, visto che Anthony Parker è un americano diventato tra i migliori di sempre nella storia dell’Eurolega.
Ma ho fisicamente bisogno di dirvi cosa significhi guardarlo da vicino.
Un anno, mentre giocavo alla Skipper Bologna, siamo arrivati in finale di Eurolega contro il Maccabi Tel Aviv, la squadra di Anthony. Ci massacrarono, perdemmo la partita di più di 40 punti. Lui fece 21 punti e ancora oggi sono convinto che non abbia sbagliato un tiro in quella partita, uno o due al massimo. Io avevo 18 anni all’epoca, quindi ero molto impressionabile, e per noi europei Anthony Parker non era come Jordan.
Lui era Jordan.
Era velocissimo, per andare a canestro riusciva a staccare dalla linea del tiro libero. Palleggiava tra le gambe regolarmente durante le partite, cosa che non si vede molto spesso in Europa, e faceva stoppava chase-down a là LeBron.
Chiaramente mi è dispiaciuto tantissimo perdere la finale in quel modo, ma allo stesso tempo, da teenager con il sogno della NBA, mi sono sentito fortunato a poter dividere il parquet con lui. É stato un onore. Più in là durante la sua carriera, Anthony è venuto a giocare in NBA a Toronto, e io ho dovuto marcarlo qualche volta – ci siamo sempre scambiati un sorriso in campo, come per dire é da tanto tempo che facciamo questo.
Siamo vecchi.
Manu Ginobili
É vero, sto barando di nuovo – Manu è argentino – ma stavolta è lecito, credo. Ha giocato nella squadra della mia città natale, la Virtus Bologna, ed era la stella più luminosa di quella squadra. Quando mi hanno chiamato dalle giovanili in prima squadra, ero incredibilmente eccitato all’idea di conoscerlo e scoprire come fosse realmente.
Cosa si prova a giocare insieme al tuo eroe? Stavo per scoprirlo.
Una cosa che penso in pochi sappiano di Manu è che è una persona molto positiva. Vuole solo il meglio per i suoi compagni di squadra, e durante i due anni in cui abbiamo giocato insieme è stato costantemente una sorta di secondo allenatore.
Mi ha insegnato come muovermi in campo con la palla, cosa che fino a quel momento avevo fatto poco alla Virtus. Ero bravo a muovermi senza palla, per ricevere sugli scarichi e poter tirare, ma Manu mi ha insegnato tutta una serie di trucchetti di cui fino a quel momento non sospettavo l’esistenza.In poche parole, è semplicemente un campione.
Un’altra cosa che penso la gente non noti abbastanza è l’attenzione di Manu per i dettagli, quanto sia maniacale. Sarò sincero, l’allenatore e tutto lo staff tecnico ci hanno sempre dato tantissime informazioni sulla squadra che stavamo per affrontare, e talvolta la concentrazione per tutte quelle informazioni tende a mancare. Succede alla maggior parte dei giocatori ed è normale, perchè ci sono tantissimi avversari in NBA e tantissime cose a cui stare attenti; è difficile fare attenzione a tutto e ricordarsi tutto in ogni singolo istante.
Per Manu questo invece era naturale. Si è sempre ricordato ogni cosa, come se fosse stato tutta la notte sveglio a cercare di memorizzare ogni informazione disponibile sulla squadra avversaria. Quando sono stato nuovamente compagno di squadra di Manu a San Antonio, nei Playoffs lui ha sempre alzato l’asticella sotto questo aspetto. Una volta stavo marcando un giocatore di cui adesso mi sfugge il nome, perché era in fondo alle rotazioni della sua squadra e nessuno si aspettava che sarebbe sceso in campo. Stavamo vincendo la partita, e ad un certo punto il mio uomo riceve palla da solo in angolo e mette una tripla.
“Marco!” ha urlato Manu.
Sapevo di aver fatto qualcosa di sbagliato, ma non avrei saputo dire che cosa di preciso.
“Non sai che quel tizio tira bene dall’angolo?! Stagli più addosso!”
Sa tutto di tutti, anche di giocatori contro i quali non dovrà mai giocare. Questo è Manu.
Come faccia ad essere ancora in NBA e decidere le partite a 40 anni, vi state chiedendo?
Perché è ancora esattamente lo stesso di quando ha cominciato”.