Olimpiadi, l’Italia celebra l’oro di Fabio Basile nel Judo 16 anni dopo il trionfo di Giuseppe Maddaloni a Sidney
Giuseppe “Pino” Maddaloni è uno dei tanti esempi italiani di atleti prima sconosciuti e ignorati, portati poi sul sempre affollato carro dei vincitori una volta ottenuto il gradino più alto del podio a un’Olimpiade, salvo poi essere di nuovo abbandonati a sè stessi una volta che l’enfasi del trionfo e i flash dei fotografi si sono definitivamente spenti e raffreddati. Pino Maddaloni il suo oro lo vince a Sidney, nel 2000, nel Judo, peso 73kg. Pino quell’oro lo vince, meritatamente, grazie ai mille sforzi suoi e di papà suo, Giovanni, primo allenatore del bimbo – atleta Giuseppe, nato a Napoli nel 1976.
Pino è forte, ha l’aspetto tipico del tipico italiano, e quelle orecchie “levigate” di chi ha combattuto tanto nella vita, che lo fanno assomigliare a un rugbista coraggioso. Lui sul “tatami” porta la sfrontatezza napoletana e il rispetto giapponese. Lui sul “tatami” porta con sé l’Italia e il paese del sushi. Lui, sul “tatami”, porta il disagio di Scampia e l’onore di un Kamikaze. Maddaloni nella finale olimpica trova contro di sé un brasiliano, un ragazzo forse non troppo convinto di poter vincere. Il cronometro scandisce il tempo, e quando arriva a segnare 1,39, Pino stende il brasiliano e vince la medaglia d’oro. È un vero e proprio “ippon aureo” quello a cui tutta l’Italia assiste, in diretta o differita, quell’anno. È il successo. La fama. La gloria. Le copertine. Il viso ovunque. Le onorificenze. Gli inviti a Palazzo. Le serate a tema. Le interviste. Le foto con la medaglia. Le foto con quelli che vogliono la foto con il vincente e che in futuro si chiameranno “selfie”. Giuseppe “Pino” Maddaloni viene addirittura nominato Commendatore dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. È l’apice di Pino. Da qui in poi, la sua carriera conoscerà quello che in Italia è l’uso comune degli sportivi da Olimpiade: “l’usa e getta!”
Iniziano ad arrivare cariche piò o meno fittizie, incarichi sempre più di facciata e sempre meno di sostanza, nomine a ruoli di volta in volta sempre più laterali.
Spente le luci, ritorna il vuoto pre-Olimpiade. Spariscono gli intrusi, i giornalisti, i vari cazzari. Rimane ciò che c’era prima. Rimangono i valori che hanno portato sul tatami il classico scugnizzo e lo hanno fatto diventare un vero campione. Rimane la famiglia. Tutto il resto, pianopiano, se ne va, scrostandosi dal corpo e dalla mente, come inutile grasso che appesantiva i movimenti e le giornate di tutti i giorni. L’Olimpiade è questo, in fondo: un grande vaso comunicante, in cui inserire nomi e sport che nessuno ha mai seguito e mai seguirà e, soprattutto, mai praticherà. Nessuno dei grandi papaveri saliti sul carro del “Maddaloni” di turno, vincente, ha mai pensato seriamente di elargire o donare soldi e finanziamenti al “judo” di turno. I soldi, se ci sono, vanno al calcio. Tutti. Indistintamente. Per gli altri sport esistono, fortunatamente, i vari “papà dei vari Maddaloni”, che, sparsi per la penisola, aiutano i propri figli a crescere coltivando “mens sana in corpore sano”, e seminando così, per l’Italia intera,
uno stuolo di atleti-esseri umani che hanno già, nel loro dna, tutti le caratteristiche necessarie a vincere. E non solo alle Olimpiadi, ma nella vita.