Olimpiadi, la sentenza del Tas su Alex Schwazer e la verità fatta di colpevolezza
Chi pratica sport a livello amatoriale, sa. Chiunque abbia messo piede in una palestra, anche solo una volta nella vita, sa. Chi ha sudato, allenandosi, per poi godersi la doccia finale, sa. Sa che questa volta Alex è innocente. Lo sa, lo sente. Alex ha sbagliato, e ha fatto una di quelle cazzate che nessuno dimentica. Poi si è messo nelle mani di Sandro Donati. Si è pulito, ripulito. Prima nella testa, poi nel fisico. Ed è ripartito, per una nuova avventura. Era convinto, Alex, che sarebbe bastato tornare a vincere, questa volta in maniera pulita, per ripulire anche la sua coscienza. Non è stato così. Come a Madonna di Campiglio, qualcosa di più grande di Alex e Sandro ha impedito il percorso di un atleta. Qualcosa di brutto. Che ha a che fare con controlli, con chi fa i controlli, con chi fa i controlli a chi fa i controlli, con chi fa i controlli a chi fa i controlli su chi fa i controlli. Sigle, cognomi, federazioni, labirinti, fiale, provette, date, tabelle, istogrammi: tutto si confonde, riecco apparire il muro di gomma. Alex non gareggerà. Alex è finito. Alex doveva chiudere la sua stagione d’atleta. E così sarà: 8 anni. È una storia brutta, questa. Una di quelle storie che, come quella di Pantani a Campiglio, non si chiuderà mai. Perché possono raccontarci tante verità. Ma una sola è quella che conta: quella che ogni atleta ha provato nel suo cuore quando ha letto di questa sentenza, di questa fialetta, di questo esame. E non è una verità fatta di colpevolezza.
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