La storia di Kawhi Leonard, dal silenzio dell’adolescenza alle prestazioni in campo che parlano al suo posto
La storia di Kawhi Leonard è una di quelle che se non fosse reale, sarebbe facilmente associabile ad una pellicola cinematografica. Il piccolo Kawhi il 19 Gennaio del 2008 aveva solo una cosa in mente: mostrare i nuovi dreadlock a suo padre Mark. Fremeva il giovane Kawhi per mostrare a suo padre, suo primo idolo nonché suo primo fan, quelle nuove treccine, magari per ottenere la sua approvazione, magari perché i genitori erano separati e ogni scusa era buona per vedere il suo “vecchio”. Il loro “prossimo incontro” però non arrivò mai. “Kawhi papà è morto, devi farti forza” gli disse in una telefonata mamma Kim disperata. In pieno giorno, Mark Leonard perse la vita a Compton in un agguato: fu sparato nel suo autolavaggio da dei membri di una gang, si racconta per un regolamento di conti.
Kawhi raggiunto dalla notizia ne uscì devastato. Di colpo le treccine, le lacrime che gli bagnavano il viso, il dolore della madre, l’autolavaggio in cui dava una mano pur di stare con suo padre, il suo stesso nome datogli dal papà affinchè ricordasse la spensieratezza delle Hawaii, si mescolavano in un’unica nube di profondo dolore. “Mamma, io domani sera scenderò in campo. Batterò Compton Dominguez High School e guarderò il cielo”, fu la risposta di Kawhi. Ironia del destino, giocò contro l’università di Compton, quella del quartiere dell’omicidio del padre: la squadra di Leonard perse, ma lui mise ugualmente 17 dignitosissimi punti. A fine partita crollò in un pianto straziante fra le braccia della madre. Da quella sera Kawhi non perse solo una partita, ma qualcosa di più: la voce. Leonard smise di parlare, di interagire con gli altri, di dialogare con gli amici: si chiuse in una specie di silenzio che in molti assimilarono all’autismo.
L’unica cosa che gli sembrava contare ancora qualcosa era il basket. Il 22 di ottobre, meno di un anno dopo, decise di giocare per San Diego State, sotto la guida di Steve Fisher, il coach che ha reclutato e allenato gente del calibro di Rose e Howard. Kawhi spinto da un sacro fuoco interiore, dettato dal desiderio di rendere orgoglioso il padre, voleva migliorare sempre di più le sue abilità: e così giorno dopo giorno quando la città dormiva ancora, si allenava da solo in palestra per 4 ore di fila. Arresto e tiro, tripla, liberi: ogni errore 20 flessioni. “Coach, è successo di nuovo. Leonard è andato due ore prima sul campo di allenamento e non ha ancora finito di allenarsi”, raccontavano le telefonate arrivate a coach Fisher alle 6 del mattino. Kahwi non aveva perso la voce, aveva solo cambiato modo di comunicare, adesso si esprimeva solo con il basket.
Leonard migliorò notevolmente finchè a soli 20 anni non si rese eleggibile per il draft Nba del 2011: primo giro, quindicesima scelta, Indiana Pacers. Con Indiana giocò…non giocò nemmeno 1 secondo, venne subito scambiato con i San Antonio che mandarono Hill ai Pacers. A Coach Popovich piacque subito. Gli ricordò Duncan: “Kawhi è taciturno. Ma ci sono abituato. Duncan da 17 anni mi parla una volta ogni due settimane“. Gli piaceva soprattutto perchè Leonard era, ed è anora, un tipo coi piedi per terra: gli Spurs lo pagarono 2 milioni di dollari la stagione da matricola, e lui si portò dietro la “misera” Chevy Malibu che guidava a San Diego in Texas: “beh, è già pagata” spiegò. Dalla nonna, che gli ricorda di non perdere la fede travolto dal seducente successo del mondo Nba, ha ereditato la fede: ha un app che ogni giorno gli fa conoscere un verso della Bibbia. Il suo preferito è quello su Giobbe che perde famiglia, soldi e salute ma non la fede e guadagna una nuova famiglia, moltiplica fortune e denari.
La tragedia del padre ha segnato e insegnato tanto a Kahwi: “è solo pallacanestro. Non ho mai paura. Non è questione di vita o di morte“. E proprio il 15 Luglio del 2014, il giorno della festa del papà in America, i San Antonio vincono il titolo Nba, Leonard è MVP. Tutte le lacrime, i sacrifici, i silenzi assordanti hanno senso finalmente. Quest’anno le sue mani, grandi il 52% in più rispetto a quelle di un uomo comune hanno regalato finora a San Antonio un mostruoso 67-15 in regular season e chissà se questo ragazzo fatto di sacrifici, silenzi e cicatrici nell’anima, riuscirà a indossare l’anello nella prossima stagione. Per adesso non ci resta che aspettare, in silenzio: shhhhh…! Enjoy the sound of silence, enjoy the sound of Kawhi.